DANZATORI DI LUCE André Che Isse
Inaugurazione giovedì 27 Ottobre 2011 ore 18,30
con performance accompagnata dal vivo dalla viola di Paolo Botti.
Milano, Spazio Tadini (27 ottobre – 11 novembre 2011
Il pensiero e i muscoli di un danzatore hanno attraversato lo spazio per tramutarsi in oggetto altro, in rappresentazione di quel legame tra corpo e mente capace di accendere o spegnere un’emozione come schiacciando l’interruttore della luce.
Il lavoro di Andrè Che Isse è il risultato di due percorsi artistici diversi: danza e pittura. Entrambi convivono in lui e nella tela, dove traspone la sua visione del corpo e rappresenta la condizione umana.
“Ho creato una danza di immagini pittoriche – dice Andrè Che Isse – ricercando nella plasticità del corpo e nel disegno geometrico degli arti. Dopo 16 anni di danza ho sentito la necessità di fissare il pensiero sulla tela. Trovai una tecnica che rappresentasse il tono muscolare del corpo: corda cucita su tessuto intelaiato, che mi permettesse di rivelare la plasticità coreografica nella sua materia, nel suo geometrico perimetro di filo”.
Il tessuto e il filo sono elementi importanti nel suo lavoro. Al corpo è data la possibilità di animarsi perché esiste un collegamento tra mente e muscolo, tra materiale e immateriale. Il filo conduttore scelto da Che Isse è una corda che ne disegna la figura, i suoi muscoli e ne rivela, al tempo stesso, la complessità di legami e vincoli a cui il corpo deve sottomettersi. Per compiere questo svelamento Che Isse usa la luce:
“La luce posta dietro la tela svela l’anima, manifestando il “labirinto” dell’artefice. Percorsi molteplici di filo in una costruzione geometrica, un’architettura vista in pianta, stanze infinite della mente in complesse connessioni, sinapsi, come punti di fuga in un quadro rinascimentale. Due opere diverse in una stessa tela”.
Un intreccio che è una trama, un nuovo ordito sulla tela, che colloca quel corpo nel pieno delle sue possibilità espressive, all’interno di una storia, di un ambiente sottoposto a rigide regole fisiche e matematiche. Tutto questo si scopre agli occhi dell’osservatore, quando le tele si illuminano. Allora quello che prima si vedeva, ovvero un corpo che aveva trasformato e liberato in un gesto la sua energia psichica, in una visione bidimensionale, piatta, pesante e priva di ombre o chiaroscuri, si trasforma, in altro. Il corpo acquista volume, rilievo, colore, calore, svela i suoi tratti compositivi e i fili che lo reggono, quasi lo imprigionano, evocando uno scenario da teatro per burattini. Come nei pittori classici, nel lavoro di Che Isse, la luce acquista dunque una simbologia forte che entra nel corpo e lo colloca in un nuovo spazio nuovo, vicino al divino, così come facevano i pittori del XV secolo che davano solo ai personaggi vicini a Dio il potere di emanare luce. Ma questa sua vicinanza alla divinità ne evidenzia il suo dualismo tra autore e attore.
Emerge così una dialettica: la luce è ciò che scopre la trama, i legami che vincolano il corpo, ma dallo svelamento nasce un nuovo senso dell’essere e di libertà.
I lavori di Che Isse tradiscono questa ricerca di libertà anche quando non sono retro illuminati. Esprimono un desiderio dell’uomo di oltrepassare i limiti imposti dalla fisiologia e dalla “trama” di cui l’artefice rimane misterioso: il divino? Noi stessi?. Lo si evince da alcune pose o movimenti impossibili dei corpi o di parti di esso che Che Isse ha dato ad alcune sue figure.
Egli gioca con il vedo non vedo, con il sono e appaio, con il posso e non posso.
L’interruttore, strumento dell’osservatore, trasforma lo stesso in deus ex machina, colui che interviene svelandone la trama e può decidere in maniera decisiva sulla storia o la coreografia e, quindi, il movimento del danzatore sul palcoscenico. L’osservatore – uomo può quindi decidere di accendere o spegnere la luce, di guardare dentro o limitarsi a guardare lo specchio, di riconoscersi o conoscersi.
Shakespeare lasciava che Amleto si tormentasse con la domanda “Essere o non essere?”. Ieri come oggi la danza tra i due opposti rimane, ma con la consapevolezza che abbiamo acquisito più strumenti di illuminazione e che siamo, forse, noi stessi a scegliere di smorzare la nostra libertà ed intensità espressiva restando, di conseguenza, al buio.
Melina Scalise